Come per il progetto anche il contenuto di questa pagina l'ho reperito da Yacht Digest vecchia edizione.

 

IL BOVO

 

Abbiamo scelto questa volta un’imbarcazione tradizionale sulla quale esiste – una volta tanto – una buona documentazione originale, proveniente da un cantiere viareggino. Il bovo che riproduciamo fu costruito verso la fine dell’ottocento per essere adibito al trasporto di merci secche (c’erano anche bovi per il trasporto del vino, ma questi si distinguevano per la forte curvatura data al balzone, che permetteva di ospitare sottocoperta botti più capienti. Nella sezione longitudinale, possiamo vedere la solita suddivisione dello spazio sottocoperta, con la parte centrale riservata al carico, gli alloggi per l’equipaggio a prua e le cabine del comandante (che spesso era anche armatore) e del suo secondo a poppa.

In Italia, le prime menzioni di barche denominate bovi appaiono nelle statistiche del Regno di Sardegna verso la fine del 1700; ma all’epoca della Restaurazione (1815) essi erano già piuttosto diffusi (circa il 10-15% dei velieri registrati a La Spezia, per esempio) La stazza media si aggirava sulle 15 tonnellate. Nello stesso periodo, al Sud, troviamo una trentina di bovi in una statistica siciliana del 1819. Verso la metà dell’Ottocento il bovo poteva dirsi un’imbarcazione comunemente usata, ma in seguito le statistiche ne mostrano un calo numerico: ne esistevano in Italia 283 nel 1878, 160 nel 1892 e solo 52 nel 1905. Le dimensioni medie di queste barche erano però aumentate (27 tonnellate di stazza media nel 1905).

La somiglianza dei bovi con le paregge è evidente per quanto riguarda lo scafo. Infatti, in Liguria spesso le fonti statistiche sommano insieme paregge e bovi, come se si trattasse di un unico tipo di imbarcazione. Diversi autori sostengono, sulla base dell’iconografia, che la differenza riguardava unicamente l’alberatura. La pareggia aveva l’albero maestro a calcese, inclinato in avanti, mentre nel bovo l’albero era verticale, senza cavatoie per il passaggio degli amanti di drizza, e portava un alberello di gabbia.

L’attrezzatura della pareggia era quella tipica delle barche, sulle quali il passaggio dell’antenna verso il bordo sottovento, quando la barca virava o il vento cambiava direzione, avveniva alla maniera natica. Infatti sulle paregge, come sui leudi e su tante altre imbarcazioni tradizionali del Mediterraneo, il paranco di drizza dell’antenna di maestra era ammarrato sul ponte a poppavia dell’albero. Con questa attrezzatura la manovra era piuttosto impegnativa, occorreva applicare l’antenna (porla cioè in posizione verticale) farla passare di bordo a proravia dell’albero, e condurre la scotta della vela latina, controvento, da un bordo all’altro. Questa manovra era detta “fare il carro” nel Tirreno, e “butar de brazo” dai veneti.

Invece l’attrezzatura dei bovi sembra predisposta per la manovra – molto più semplice – che consisteva nel far passare il carro (l’estremità anteriore dell’antenna) a poppavia dell’albero. Se le vecchie stampe e i dipinti che abbiamo raccolto rappresentano correttamente il percorso delle manovre reali, tuttavia, vi erano bovi sui quali il passaggio dell’antenna non avveniva affatto, essendo materialmente impossibile. In questi casi, l’antenna restava sempre su un bordo; essa portava bene quando era sul bordo giusto, sottovento rispetto all’albero; meno bene nel caso contrario, ma questo svantaggio non era considerato troppo grave. Non sappiamo cosa ne pensino i diportisti moderni, che in numero sempre maggiore riscoprono il fascino di questo antichissimo tipo di velatura.

Tornando sull’argomento delle affinità tra bovi e paregge, ci guarderemmo bene dal sostenere che il bovo fosse essenzialmente una pareggia con l’attrezzatura velica modernizzata. Innanzitutto, una modifica del genere (per quanto gradita ai marinai che dovevano sbrigarsela con la manovra in stile antico in virata) non avrebbe portato a cambiare il nome a una barca. Inoltre, abbiamo visto che c’erano anche bovi in Sicilia, fin da tempi molto antichi, e per questi ipotizzare una derivazione dalla pareggia ci sembra azzardato.

Se allarghiamo la prospettiva, e prendiamo in considerazione i battelli stranieri che, per denominazione, dovrebbero essere affini ai bovi nostrani, il quadro non si chiarisce affatto. Il “boeuf” o “bateau boeuf” provenzale descritto dall’Ammiraglio Paris, che ne riproduce anche i piani, era un’imbarcazione notevolmente più piccola dei nostri bovi, ad un solo albero e con poppa a cuneo, ed era usata esclusivamente per la pesca. Nessuna somiglianza con il nostro bovo, dunque. Il fatto è che, all’origine, il termine provenzale non era “boeuf” ma “bouf”, e indicava non una barca ma una rete da pesca (a strascico). La prima menzione di bouf (= rete da pesca a strascico) nella lingua provenzale risale al 1725, e la fonte precisa che questa tecnica di pesca prima era sconosciuta in quelle acque. Ancora nel 1769 Duhamel riportava sotto “bouf” il significato di tecnica di pesca, e non di tipo di barca. Quest’ultimo significato compare solo nel 1830: bouf = barca impiegata per la pesca “aux boeufs” (una evidente similitudine con i buoi appaiati a tirar l’aratro).

Da quanto abbiamo detto appare chiaro che, se vi sono state relazioni tra il bovo nostrano e il “bouf-bou” del Mediterraneo occidentale, esse risalgono a tempi anteriori al 1800. Dopo l’inizio dello scorso secolo, l’unica affinità era quella tra le denominazioni, che potrebbe del resto essere anche casuale. Ancora una volta dobbiamo constatare come sia difficile spingere l’indagine un po’ a ritroso nel tempo, per chiarire quali possano essere le origini di una barca tradizionale, e quali le sue affinità con altri tipi. Di tutti questi bellissimi strumenti di lavoro, che diedero da vivere alle generazioni passate delle nostre popolazioni costiere, sappiamo veramente molto poco.

************************************