LA
CORALLINA NAPOLETANA
Analisi
di un’imbarcazione napoletana utilizzata per la pesca del corallo.
Il
modello è conservato al Museo della Marina di Parigi.
I
metodi di pesca con l’”ingegno”. La ripartizione del ricavo.
La
pesca del corallo era una delle attività più caratteristiche fra quelle a cui
si dedicava la gente di mare del Mediterraneo. Essa era svolta in passato con
metodi primitivi, anzi distruttivi, che infatti hanno condotto alla quasi totale
scomparsa del corallo dai nostri fondali. Tuttavia non vorremmo qui rievocarla
con toni di condanna, ma obbiettivamente rilevare la sua importanza per certe
popolazioni delle zone costiere, e la bellezza dei manufatti che risultavano
alla fine del ciclo. Questo iniziava, appunto, con la “pesca” –
un’attività che forse sarebbe più appropriato qualificare come mineraria,
visto che l’oggetto è un composto di carbonato di calcio, con impurità,
principalmente ossido di ferro, che gli danno l’apprezzatissimo colore rosso,
in tante gradazioni.
Il
corallo rappresenta il residuo, lo scheletro, del ciclo biologico di colonie di
minuscoli polipi che gli zoologi classificano come appartenenti alla sottoclasse
delle Gorgoniacee.
Abbiamo definito la raccolta del corallo come un’attività tipica della gente di mare del Mediterraneo, infatti, colonie di polipi affini a quelli che producono il vero corallo vivono in tutti i mari e gli oceani, ma appartengono a specie diverse, e il loro “prodotto” non ha valore commerciale. La madrepora delle famose barriere “coralline”, degli atolli del Pacifico, ecc., non finirà mai nelle vetrine dei gioiellieri. Il vero corallo si trova, al di fuori del Mediterraneo occidentale, nelle isole Canarie, nelle isole di Capo Verde e sulla costa del Portogallo, poi sulle coste meridionali del Giappone e alle isole Figi.
Il
corallo giapponese si presenta in pezzi molto più grandi di quelli prodotti nel
Mediterraneo, ma la qualità in generale non è molto pregiata, salvo un
particolare tipo, il migliore di tutti, detto “pelle d’angelo” di colore
rosa pallido. Questa varietà un tempo veniva raccolta anche nelle acque attorno
allo stretto di Messina, ma in tempi recenti, a memoria d’uomo, non vi è
stata più trovata.
Il
corallo di buona qualità, lavorato in monili o cammei, viene venduto a pezzi
molte volte superiori all’oro, ed anche all’origine, cioè ai
“corallari” frutta ricavi interessanti. La raccolta è infatti ancora
attiva, nonostante la rarefazione dei banchi di corallo.
A
causa dello sfruttamento intensivo, i banchi di corallo situati nelle acque
costiere d’Italia, Spagna, Francia e del Nord Africa tendevano
all’esaurimento già nella seconda metà dell’Ottocento. La scoperta di tre
grandi zone corallifere al largo della costa Siciliana, tra Sciacca e
Pantelleria, (1875, 1878, 1881) fornì ancora per alcuni decenni abbondante
materia prima ai laboratori artigiani, che in Italia erano concentrati a Torre
del Greco, e in misura minore a Livorno e a Venezia; e fuori d’Italia a
Barcellona e Marsiglia. Il corallo
del giacimento sottomarino di Sciacca era, curiosamente, corallo fossile,
cresciuto in epoche geologiche lontane, e la sua qualità era mediamente bassa.
Oggi
si lavora prevalentemente corallo giapponese, ma non è del tutto cessata la
raccolta nel Mediterraneo; principalmente intorno alle Bocche di Bonifacio, un
certo numero di specialisti subacquei ricava ancora discreti proventi
raccogliendo corallo nostrano di ottima qualità. I raccoglitori si servono di
imbarcazioni cabinate piuttosto grandi, e munite dell’attrezzatura per la
ricarica delle bombole per gli autorespiratori ad aria o a miscela di elio, e
spesso anche di camere di decompressione per poter intervenire nei casi non
infrequenti di embolie.
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Esaminiamo
ora come avveniva la raccolta del corallo nei tempi antichi.
Sembra
incredibile, ma per secoli lo strumento usato fu il cosiddetto “ingegno”, un
arnese estremamente rudimentale, costituito da due travi unite in modo da
formare una croce, dalle quali pendevano pezzi di vecchie reti. Il tutto era
appesantito da pietre o blocchi di piombo. L’ingegno veniva trascinato sul
fondale, dove si supponeva trovarsi il corallo, i rametti del quale si
impigliavano nelle reti e venivano strappati a forza, e, almeno in parte,
portati in superficie: possiamo stimare che la maggior parte rimanesse sul
fondo.
Il
sistema era usato in tutto il Mediterraneo, e deve essere considerato
distruttivo non tanto in considerazione della parte di corallo che non veniva
recuperata, quanto per il fatto che venivano strappate intere colonie, inclusi i
rametti troppo minuti per essere utilizzati. Così la crescita delle colonie di
polipi veniva interrotta. Oggi i corallari staccano con un martelletto i rametti
di una certa consistenza, badando bene a non danneggiare il resto. A seconda
delle dimensioni dell’”ingegno”, erano necessari mezzi tecnici per poterlo
muovere sul fondo, e soprattutto per issarlo a bordo. C’erano così piccoli
“ingegni” da manovrare a mano sui fondali bassi, e arnesi più grossi, che
richiedevano l’uso di un argano.
Anche
le barche usate per questa attività erano di tipi e dimensioni diverse. In
realtà, qualsiasi barchetta o gozzo poteva essere usato per “andare a
coralli”, ma coloro che lavoravano con continuità in questo campo usavano
imbarcazioni adatte allo specifico lavoro ed attrezzate per svolgerlo al meglio.
L’imbarcazione
della quale riproduciamo i piani è classificata come corallina napoletana. I
piani da noi rielaborati, provengono dalla raccolta dell’Ammiraglio Parisi; il
Museo della Marina di Parigi possiede un modello dell’imbarcazione, che ci è
stato di aiuto nella rielaborazione.
Le
caratteristiche di questa barca sono la sezione trasversale larga e bassa, e le
murate poco elevate. Questo doveva senza dubbio facilitare il lavoro di salpare
l’”ingegno” con l’aiuto dell’argano, e, una volta portato in
superficie, staccare il corallo dalle reti, sostituire quelle che si fossero
strappate e rituffarlo in mare.
La
sezione piatta doveva inoltre dare alla barca una notevole stabilità laterale,
necessaria per contrastare l’azione dell’argano quando occorreva far forza
per strappare l’”ingegno” dal fondo.
Teniamo
presente che il corallo cresce (o cresceva, dovremmo forse dire) a profondità
variabili tra 15 e 200 metri; in tempi storici non si reperiva corallo a meno di
15 m. di profondità, salvo casi eccezionali, e oggi è raro trovarne al di
sopra di 70-80 m. La fatica fisica per la manovra dell’”ingegno” doveva
essere grande; ma si trattava di uno dei lavori più redditizi fra quelli del
mare.
L’imbarcazione
della quale pubblichiamo i piani era piuttosto grande, circa 13 metri di
lunghezza, ed era dotata di un grosso argano, la cui “miccia” scendeva fino
al paramezzale. Al centro dello scafo si notano, poco sotto al livello della
coperta, i ganci per i paranchi usati per tirare a secco la barca sulla
spiaggia. Può darsi che lo stesso argano che serviva per il lavoro a bordo
venisse usato anche per questo scopo. Occorreva però che sulla spiaggia vi
fosse lo speciale attrezzo, una specie di mastra mobile che veniva fissata al
terreno con dei paletti, e che permetteva di azionare l’argano.
La
corallina è completamente pontata; l’accesso alla stiva è dato da tre
boccaporti. Data la limitata altezza sottocoperta, all’equipaggio si poteva
offrire al più dei giacigli; tuttavia a poppa c’era un locale, “quasi” ad
altezza d’uomo, che serviva come alloggio per il capobarca. L’equipaggio di
barche come quella qui presentata poteva variare da sei a dieci uomini, più uno
o due mozzi.
In
profilo lo scafo presenta un dritto di poppa verticale, mentre la prora è
leggermente curva verso l’esterno; la curvatura della ruota all’attacco con
la chiglia è molto ampia. La poppa è a cuneo; il rapporto tra lunghezza e
larghezza è quasi 1:3. Questo rapporto non esce certo dalla normalità, mentre
il rapporto di 1:3,8 fra puntale e baglio è molto alto. La barca pescava appena
un metro e doveva aggirarsi in modo disinvolto tra secche e scogliere, mossa a
remi, alla ricerca del prezioso corallo.
L’attrezzatura
velica latina è elementare, e non presenta particolarità, se non la
lunghissima asta del polaccone: essa veniva legata al piede dell’albero, e più
di metà della sua lunghezza rimaneva entrobordo. Probabilmente c’era qualche
altro uso al quale quel buttafuori veniva adibito.
Abbiamo
detto che l’attribuzione dell’imbarcazione alla marineria napoletana risale
al Museo della Marina di Parigi, che però non possiede altre informazioni su di
essa.
Osserviamo
che le dimensioni degli elementi strutturali dello scafo corrispondono in
maniera sospetta alle misure francesi anteriori all’introduzione del sistema
metrico decimale: il “pied du Roi” francese misurava 32,4 cm, e le misure in
uso in Provenza erano solo leggermente differenti. Può darsi che i piani
derivino da un rilevamento, e che gli autori di esso abbiano “arrotondato”
le misure per farle corrispondere al sistema metrico a loro più familiare. Ma
può darsi anche che l’attribuzione sia errata.
Barche
simili non erano molto adatte a lunghe navigazioni, mentre sappiamo che per
esempio le coralline napoletane pescavano sulla costa tunisina, o al largo delle
coste siciliane, mentre le coralline livornesi pescavano sulla costa occidentale
della Sardegna e anche altrove, nel Mediterraneo occidentale. Le flottiglie di
pescatori di corallo erano organizzate e quando si allontanavano troppo dal
porto di armamento, si riunivano attorno ad una unità più grande, che serviva
da appoggio logistico e da rifugio in caso di maltempo: tipicamente una grossa
tartana.
Si
è conservata memoria delle consuetudini per la ripartizione del ricavo della
stagione di raccolta: per esempio, le consuetudini livornesi del 1700 volevano
che il ricavato di una barca con equipaggio di sette membri fosse diviso in
undici parti, delle quali quattro spettavano al padrone della barca, il quale
copriva tutti i costi, ed una a ciascuno dei sei marinai, mezza al mozzo e mezza
alle elemosine. A novembre si teneva a Livorno la grande fiera per la vendita
del corallo della stagione, e vi partecipavano equipaggi di altre regioni, anche
da fuori d’Italia, e compratori da tutte le parti d’Europa.
La
raccolta toccò il culmine in Italia in coincidenza con la scoperta dei grandi
campi siciliani detti sopra, poi declinò bruscamente con il loro esaurimento:
nel 1880 le statistiche ricordano ben 693 imbarcazioni definite “coralline”.
Nel
1905 esse erano ridotte a 72.
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