LA CORALLINA NAPOLETANA

Di Sergio Bellabarba ed Edo Guerrieri

Analisi di un’imbarcazione napoletana utilizzata per la pesca del corallo.

Il modello è conservato al Museo della Marina di Parigi.

I metodi di pesca con l’”ingegno”. La ripartizione del ricavo.

 

La pesca del corallo era una delle attività più caratteristiche fra quelle a cui si dedicava la gente di mare del Mediterraneo. Essa era svolta in passato con metodi primitivi, anzi distruttivi, che infatti hanno condotto alla quasi totale scomparsa del corallo dai nostri fondali. Tuttavia non vorremmo qui rievocarla con toni di condanna, ma obbiettivamente rilevare la sua importanza per certe popolazioni delle zone costiere, e la bellezza dei manufatti che risultavano alla fine del ciclo. Questo iniziava, appunto, con la “pesca” – un’attività che forse sarebbe più appropriato qualificare come mineraria, visto che l’oggetto è un composto di carbonato di calcio, con impurità, principalmente ossido di ferro, che gli danno l’apprezzatissimo colore rosso, in tante gradazioni.

Il corallo rappresenta il residuo, lo scheletro, del ciclo biologico di colonie di minuscoli polipi che gli zoologi classificano come appartenenti alla sottoclasse delle Gorgoniacee.

Abbiamo definito la raccolta del corallo come un’attività tipica della gente di mare del Mediterraneo, infatti, colonie di polipi affini a quelli che producono il vero corallo vivono in tutti i mari e gli oceani, ma appartengono a specie diverse, e il loro “prodotto” non ha valore commerciale. La madrepora delle famose barriere “coralline”, degli atolli del Pacifico, ecc., non finirà mai nelle vetrine dei gioiellieri. Il vero corallo si trova, al di fuori del Mediterraneo occidentale, nelle isole Canarie, nelle isole di Capo Verde e sulla costa del Portogallo, poi sulle coste meridionali del Giappone e alle isole Figi.

Il corallo giapponese si presenta in pezzi molto più grandi di quelli prodotti nel Mediterraneo, ma la qualità in generale non è molto pregiata, salvo un particolare tipo, il migliore di tutti, detto “pelle d’angelo” di colore rosa pallido. Questa varietà un tempo veniva raccolta anche nelle acque attorno allo stretto di Messina, ma in tempi recenti, a memoria d’uomo, non vi è stata più trovata.

Il corallo di buona qualità, lavorato in monili o cammei, viene venduto a pezzi molte volte superiori all’oro, ed anche all’origine, cioè ai “corallari” frutta ricavi interessanti. La raccolta è infatti ancora attiva, nonostante la rarefazione dei banchi di corallo.

A causa dello sfruttamento intensivo, i banchi di corallo situati nelle acque costiere d’Italia, Spagna, Francia e del Nord Africa tendevano all’esaurimento già nella seconda metà dell’Ottocento. La scoperta di tre grandi zone corallifere al largo della costa Siciliana, tra Sciacca e Pantelleria, (1875, 1878, 1881) fornì ancora per alcuni decenni abbondante materia prima ai laboratori artigiani, che in Italia erano concentrati a Torre del Greco, e in misura minore a Livorno e a Venezia; e fuori d’Italia a Barcellona e Marsiglia.  Il corallo del giacimento sottomarino di Sciacca era, curiosamente, corallo fossile, cresciuto in epoche geologiche lontane, e la sua qualità era mediamente bassa.

Oggi si lavora prevalentemente corallo giapponese, ma non è del tutto cessata la raccolta nel Mediterraneo; principalmente intorno alle Bocche di Bonifacio, un certo numero di specialisti subacquei ricava ancora discreti proventi raccogliendo corallo nostrano di ottima qualità. I raccoglitori si servono di imbarcazioni cabinate piuttosto grandi, e munite dell’attrezzatura per la ricarica delle bombole per gli autorespiratori ad aria o a miscela di elio, e spesso anche di camere di decompressione per poter intervenire nei casi non infrequenti di embolie.

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Esaminiamo ora come avveniva la raccolta del corallo nei tempi antichi.

Sembra incredibile, ma per secoli lo strumento usato fu il cosiddetto “ingegno”, un arnese estremamente rudimentale, costituito da due travi unite in modo da formare una croce, dalle quali pendevano pezzi di vecchie reti. Il tutto era appesantito da pietre o blocchi di piombo. L’ingegno veniva trascinato sul fondale, dove si supponeva trovarsi il corallo, i rametti del quale si impigliavano nelle reti e venivano strappati a forza, e, almeno in parte, portati in superficie: possiamo stimare che la maggior parte rimanesse sul fondo.

Il sistema era usato in tutto il Mediterraneo, e deve essere considerato distruttivo non tanto in considerazione della parte di corallo che non veniva recuperata, quanto per il fatto che venivano strappate intere colonie, inclusi i rametti troppo minuti per essere utilizzati. Così la crescita delle colonie di polipi veniva interrotta. Oggi i corallari staccano con un martelletto i rametti di una certa consistenza, badando bene a non danneggiare il resto. A seconda delle dimensioni dell’”ingegno”, erano necessari mezzi tecnici per poterlo muovere sul fondo, e soprattutto per issarlo a bordo. C’erano così piccoli “ingegni” da manovrare a mano sui fondali bassi, e arnesi più grossi, che richiedevano l’uso di un argano.

Anche le barche usate per questa attività erano di tipi e dimensioni diverse. In realtà, qualsiasi barchetta o gozzo poteva essere usato per “andare a coralli”, ma coloro che lavoravano con continuità in questo campo usavano imbarcazioni adatte allo specifico lavoro ed attrezzate per svolgerlo al meglio.

L’imbarcazione della quale riproduciamo i piani è classificata come corallina napoletana. I piani da noi rielaborati, provengono dalla raccolta dell’Ammiraglio Parisi; il Museo della Marina di Parigi possiede un modello dell’imbarcazione, che ci è stato di aiuto nella rielaborazione.

Le caratteristiche di questa barca sono la sezione trasversale larga e bassa, e le murate poco elevate. Questo doveva senza dubbio facilitare il lavoro di salpare l’”ingegno” con l’aiuto dell’argano, e, una volta portato in superficie, staccare il corallo dalle reti, sostituire quelle che si fossero strappate e rituffarlo in mare.

La sezione piatta doveva inoltre dare alla barca una notevole stabilità laterale, necessaria per contrastare l’azione dell’argano quando occorreva far forza per strappare l’”ingegno” dal fondo.

Teniamo presente che il corallo cresce (o cresceva, dovremmo forse dire) a profondità variabili tra 15 e 200 metri; in tempi storici non si reperiva corallo a meno di 15 m. di profondità, salvo casi eccezionali, e oggi è raro trovarne al di sopra di 70-80 m. La fatica fisica per la manovra dell’”ingegno” doveva essere grande; ma si trattava di uno dei lavori più redditizi fra quelli del mare.

L’imbarcazione della quale pubblichiamo i piani era piuttosto grande, circa 13 metri di lunghezza, ed era dotata di un grosso argano, la cui “miccia” scendeva fino al paramezzale. Al centro dello scafo si notano, poco sotto al livello della coperta, i ganci per i paranchi usati per tirare a secco la barca sulla spiaggia. Può darsi che lo stesso argano che serviva per il lavoro a bordo venisse usato anche per questo scopo. Occorreva però che sulla spiaggia vi fosse lo speciale attrezzo, una specie di mastra mobile che veniva fissata al terreno con dei paletti, e che permetteva di azionare l’argano.

La corallina è completamente pontata; l’accesso alla stiva è dato da tre boccaporti. Data la limitata altezza sottocoperta, all’equipaggio si poteva offrire al più dei giacigli; tuttavia a poppa c’era un locale, “quasi” ad altezza d’uomo, che serviva come alloggio per il capobarca. L’equipaggio di barche come quella qui presentata poteva variare da sei a dieci uomini, più uno o due mozzi.

In profilo lo scafo presenta un dritto di poppa verticale, mentre la prora è leggermente curva verso l’esterno; la curvatura della ruota all’attacco con la chiglia è molto ampia. La poppa è a cuneo; il rapporto tra lunghezza e larghezza è quasi 1:3. Questo rapporto non esce certo dalla normalità, mentre il rapporto di 1:3,8 fra puntale e baglio è molto alto. La barca pescava appena un metro e doveva aggirarsi in modo disinvolto tra secche e scogliere, mossa a remi, alla ricerca del prezioso corallo.

L’attrezzatura velica latina è elementare, e non presenta particolarità, se non la lunghissima asta del polaccone: essa veniva legata al piede dell’albero, e più di metà della sua lunghezza rimaneva entrobordo. Probabilmente c’era qualche altro uso al quale quel buttafuori veniva adibito.

Abbiamo detto che l’attribuzione dell’imbarcazione alla marineria napoletana risale al Museo della Marina di Parigi, che però non possiede altre informazioni su di essa.

Osserviamo che le dimensioni degli elementi strutturali dello scafo corrispondono in maniera sospetta alle misure francesi anteriori all’introduzione del sistema metrico decimale: il “pied du Roi” francese misurava 32,4 cm, e le misure in uso in Provenza erano solo leggermente differenti. Può darsi che i piani derivino da un rilevamento, e che gli autori di esso abbiano “arrotondato” le misure per farle corrispondere al sistema metrico a loro più familiare. Ma può darsi anche che l’attribuzione sia errata.

Barche simili non erano molto adatte a lunghe navigazioni, mentre sappiamo che per esempio le coralline napoletane pescavano sulla costa tunisina, o al largo delle coste siciliane, mentre le coralline livornesi pescavano sulla costa occidentale della Sardegna e anche altrove, nel Mediterraneo occidentale. Le flottiglie di pescatori di corallo erano organizzate e quando si allontanavano troppo dal porto di armamento, si riunivano attorno ad una unità più grande, che serviva da appoggio logistico e da rifugio in caso di maltempo: tipicamente una grossa tartana.

Si è conservata memoria delle consuetudini per la ripartizione del ricavo della stagione di raccolta: per esempio, le consuetudini livornesi del 1700 volevano che il ricavato di una barca con equipaggio di sette membri fosse diviso in undici parti, delle quali quattro spettavano al padrone della barca, il quale copriva tutti i costi, ed una a ciascuno dei sei marinai, mezza al mozzo e mezza alle elemosine. A novembre si teneva a Livorno la grande fiera per la vendita del corallo della stagione, e vi partecipavano equipaggi di altre regioni, anche da fuori d’Italia, e compratori da tutte le parti d’Europa.

La raccolta toccò il culmine in Italia in coincidenza con la scoperta dei grandi campi siciliani detti sopra, poi declinò bruscamente con il loro esaurimento: nel 1880 le statistiche ricordano ben 693 imbarcazioni definite “coralline”.

Nel 1905 esse erano ridotte a 72.

 

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