LA FELUCA SORRENTINA

 

Una delle imbarcazioni più caratteristiche della penisola sorrentina, orgoglio dei costruttori locali, che ha navigato per oltre un secolo. Le origini di questa tipologia risalgono alla metà dell’Ottocento e non si può escludere una certa derivazione dalle più antiche e classiche feluche latine, con la poppa sporgente ossia “a seggiola”.

Di “feluche” o “feluche da traffico” si parla molto nei documenti della penisola sorrentina, dove tra il XVIII ed il XIX secolo risulta costantemente presente una flotta di 20-25 feluche addette al traffico del golfo. Dall’iconografia, specialmente da un quadro di G. A. Hachert del 1794 raffigurante la marina di Alimuri presso Sorrento, le feluche classiche “latine” risultano diffuse in tutto il Mediterraneo: pontate, con la poppa sottile e sporgente, caratteristico anche degli sciabecchi e con la tradizionale prua slanciata dal tagliamare prolungato, detto bittalò, derivato dalle galere. Il termine “feluca” era inteso come sinonimo di imbarcazione sottile e veloce.

Mentre le origini delle “feluche sorrentine” più moderne, tipo quella di cui il progetto, risalgono dalla metà del XIX secolo. La feluca sorrentina era caratterizzata da uno scafo dalle linee filanti non pontato (o quantomeno solo nel primo quarto a prua), dalla prua sottile con l’asta dritta, alta e munita di pernaccia e poppa a cuneo. Era attrezzata con due alberi uguali, uno sistemato circa a mezza barca e l’altro quasi a metà tra l’albero stesso e la prua (un po’ più spostato verso prua). Gli alberi erano armati con vele latine uguali, a forma quasi trapezoidale probabilmente per poter prendere la prima mano di i terzaroli senza dover abbassare sul ponte l’antenna, come è d’uso solitamente per la vela triangolare. A prua, a lato dell’asta, poteva poi montare un bompresso mobile per distendere un fiocco o polaccone.

A bordo vi erano quattro o più remi di circa sei metri di lunghezza che, sistemati due a prua e due a poppa, servivano come mezzo propulsivo nelle calme di vento e poi per la manovra di accostamento nei porti. Mediante scalmotti il bordo libero veniva rialzato così da avere delle falchette fisse laterali fino a trequarti della barca; a poppa invece erano levabili (precisi incastri erano ricavati nella tavola intagliata che fungeva da specchio di poppa), per agevolare il carico e lo scarico delle merci dalla spiaggia.

Lo scafo della feluca sorrentina raggiungeva mediamente una lunghezza complessiva di 65 palmi napoletani, pari a circa 17 metri, con una larghezza massima di 3,70 metri.

Una delle caratteristiche più appariscenti erano le tavole trasversali che chiudeva la prua e la poppa simili alle “frise” dei gozzi a menaide.

Specialmente quello che fungeva da specchio di poppa veniva riccamente intagliato in bassorilievo: nella parte esterna facevano riferimento al nome dell’imbarcazione, mentre all’interno raffiguravano il santo protettore.

La penisola sorrentina dista da Napoli circa 50 chilometri e per secoli i collegamenti via terra sono stati scarsi, mentre via mare la distanza fra le due è di appena 12 chilometri, e per questo che tutto il traffico si è sempre svolto per mare ed ancora oggi un ottimo collegamento è dato dagli aliscafi.

La feluca sorrentina è nata principalmente per svolgere il traffico di merci e persone nel golfo di Napoli: queste barche partivano la mattina e tornavano la sera. Dovevano quindi essere dei mezzi veloci, maneggevoli ed in grado di trasportare carichi dei prodotti tipici della zona, in particolare olio, latticini, ortaggio, pescato e soprattutto arance e limoni. Questi ultimi venivano accuratamente confezionati in casse sulle spiagge della penisola e trasportati al porto di Napoli per essere ricaricati sui velieri e bastimenti con cui andavano in America o in Nord Europa. Spesso nelle acque portuali questo compito veniva svolto mediante pontoni detti sandali, di costruzione sempre sorrentina, con i quali si andava fin sotto ai velieri. Data la mancanza di adeguate strutture portuali la sera le feluche venivano sempre alate a terra sulla Marina di Cassano di Meta e sulla Marina Piccola di Sorrento. Pertanto esse dovevano essere, oltre che veloci in mare, anche di costruzione leggera, ma robusta. Le ordinate sottili e molto fitte erano di olmo, il paramezzale di quercia, il fasciame di pino e la chiglia, di “lucigno” (quercus ilex-leccio), veniva sagomata lungo la sua lunghezza: sottile a prua e poppa, più larga al centro così da agevolare il trascinamento e dare anche una certa stabilità allo scafo quando a terra.

Il disegno per realizzare il modello è ricavato dall’originale, trovato tra le carte del costruttore di I Classe  Giuseppe Sparita ed ora conservato nella raccolta di Mario Maresca unitamente ad un bellissimo mezzo modello d’epoca di feluca da cui è poi stato ricavato il modello completo. Nato a Meta nel 1851, Giuseppe Sparita è stato un personaggio tipico della penisola sorrentina: costruttore, docente dell’Istituto nautico Nino Bixio, perito del registro, nonché sindaco di Meta, è deceduto nel 1944. E’ quindi probabile che il disegno sia suo, magari un rilievo di uno scafo, dato che il piano di costruzione non era in uso nei cantieri. Anche per queste costruzioni infatti si utilizzava il più pratico sistema del garbo o quello del mezzo-modello, forse più diffuso per scafi di queste dimensioni.

Metodologia più recente, questa utilizzava delle sagome di mezzo scafo eseguito su tavolette a pane e burro collegate tra loro con perni passanti; smontato, consentiva di sviluppare il piano di costruzione e quindi poi di ricavare gli elementi strutturali necessari. Sulle spiagge locali, tra Meta e Sorrento, dalla seconda metà del XIX secolo alla prima guerra mondiale, ne furono varate a decine e gran parte di queste feluche furono motorizzate prima della prima guerra mondiale. Successivamente vennero costruite delle imbarcazioni pressoché identiche nelle linee di scafo, più grandi, ma munite di poppa a specchio, che prevedevano l’impiego del motore; si cominciarono a sistemare in coperta sovrastrutture per i passeggeri, gli alberi servirono allora solo per vele ausiliarie (tipo marconi). Di queste è sopravvissuto solo lo scafo di una feluca degli anni ’30, il “Sant’Antonio”, tirato a secco sulla spiaggia di Marina Piccola di Sorrento, ormai però irriconoscibile per i molti interventi subito come motobarca.

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