IL GOZZO SORRENTINO

Di Mario Marzari 

Vicino a Napoli ci sono ancora maestri d’ascia che sanno costruire gozzi con le metodologie tradizionali. Le lunghezze si misurano ancora in palmi e per la costruzione non ci si affida al progetto, ma a garbi e sagome. 

Più nota nel golfo napoletano come “vuzzo”, questa piccola imbarcazione a remi, munita anche di vela (anticamente “a tarchia” e successivamente latina), è stata prevalentemente usata per la pesca locale, trovando larga diffusione dalla metà del XVII secolo, allorché incominciarono a diminuire le pericolose incursioni barbaresche e i pescatori poterono spingersi in mare con più tranquillità.

Nel golfo di Napoli e nella penisola sorrentina l’attività cantieristica a livello artigianale era già fiorente fin dal XIII secolo, quando venivano costruite le navi per le guerre tra Angioini ed Aragonesi, sviluppandosi poi sempre più col passare dei secoli. Molti quindi presumono che i gozzi locali possano trovare le loro origini già in quell’epoca, per altri invece avrebbero preso forma da qualche barca saracena abbandonata in una delle cale sorrentine, recuperata dai locali e quindi riadattata. Certo i “gozzi” sono ben diffusi in tutto il Mediterraneo e, in generale, si distinguono per le ottime doti marine degli scafi con prua e poppa stellate; assumono forme, caratteristiche e colorazioni molto differenti a seconda delle varie località, dei mari che debbono affrontare dell’impiego cui sono adibiti. Conosciamo il “gozo” maltese e quello delle Baleari, le “barche” catalane, provenzali e tunisine, i gozzi della Sicilia, quello di Manfredonia, del golfo di Trieste e del Quarnero; emigrati italiani lo hanno anche diffuso a S. Francisco, dove è denominato “dago Boat” o “felucca”. Grazie alla simpatica iniziativa dl Enzo De Pasquale, ingegnere del R.I.Na., che ha voluto far entrare i ragazzi della scuola elementare di Meta di Sorrento nel mondo dei cantieri sorrentini, è stata colta l’occasione per recuperare le antiche tradizioni.

Con le indagini svolte dai ragazzi, e grazie alla disponibilità dei diversi maestri d’ascia, è stato possibile infatti ripercorrere passo per passo la costruzione di queste imbarcazioni tradizionali. Nella penisola sorrentina sono diffusi due tipi di gozzi: quello “a menaide” e la “varchetta”, da sempre misurati in “palmi” napoletani (un palmo corrisponde a 26,4 centimetri).

Il “vuzzo a menaide” raggiungeva generalmente lunghezze pari a 27, 30 o 32 palmi (=7,13 – 7,92 – 8,45 metri). Il 27 o 30 palmi era impiegato per la pesca del pesce azzurro – le alici o acciughe e le sarde o sardelle – con la rete “menaide”, da cui il nome specifico della barca; si tratta di una rete da posta, che viene calata in mare per un certo periodo di tempo in tutta la sua lunghezza (39 m circa) ed il pesce che la urta resta catturato nelle piccole maglie di circa un centimetro di lato.

Con una rete a circuizione, detta “guastaurellara”, si pescavano invece i gastaurelli; la pesca si effettuava con due gozzi talvolta anche più piccoli (da 23 o 27 palmi, 6 o 7 m circa) più sottili e leggeri, che tenevano le due braccia della rete in modo che il sacco restasse sospeso e non radente il fondo del mare. Il gozzo era anche impiegato per la pesca con la “sciabica”, una grande rete a sacco con le pareti da calare nelle piccole profondità; le maglie erano via via più decrescenti fino al sacco finale. Un’estremità era tenuta con una lunga cima da terra mentre l’altra, una volta distesa in mare dal gozzo, veniva anche riportata a riva da dove poi si procedeva a tirare (“la tratta”); in questo caso , date le dimensioni della rete, si usavano i gozzi più grandi.

La varchetta veniva invece utilizzata per la posa delle reti da posta lungo le scogliere, per la pesca dei polipi, dei calamari, delle seppie e per la posa delle nasse; pur appartenendo alla stessa tipologia, questo gozzo era lungo 14 palmi (3,7 m) e , proporzionalmente, più largo; aveva come mezzo di propulsione principale i remi ma utilizzava talvolta anche una vela aurica.

In generale lo scafo di questi gozzi, che ancora oggi sono presenti nella penisola sorrentina e nel golfo di Napoli, risulta con prua e poppa a punta. Era alto di bordo a pruavia, per tagliare il mare e riparare dalle onde, e basso invece a poppavia, per poter sistemare con facilità la “lampara”, la grande fonte di luce utilizzata di notte per attirare il pesce. Caratterizzato da un cavallino accentuato, a prua ha una “pernaccia” o “caporuota” che si eleva sulla murata di circa tre palmi (80 cm) in quello a menaide e circa un palmo nella varchetta; solitamente il caporuota più alto è ornato sulla cima con delle sculture o ornamenti che sono caratteristici dei singoli cantieri; ad esso veniva fissato il bompresso o “spigone”, utilizzato per tendere il fiocco. La poppa stellata consente di vogare procedendo anche indietro, manovra che si effettua quando si vuole soprendere il pesce con la lampara accesa.

Vi sono differenze di forme tra i gozzi a menaide e le varchette determinati dal diverso rapporto lunghezza (larghezza, pari a circa 5:1 per i primi e 3:1 per i secondi). Oggi però i gozzi a menaide sono stati modificati specialmente in prua per meglio adattarli all’impiego del motore ed anche le varchette hanno ormai perso le loro tradizionali pernacce. Le pareti dei cantieri della penisola sorrentina ancora oggi sono tappezzate di  garbi e sagome, testimonianze dell’artigianato locale legato al mare.

Questi abili maestri d’ascia si sono tramandati per generazioni per via orale i loro segreti e le metodologie di lavoro. Le origini di queste semplici tecniche di costruzione navale così funzionali si perdono “nella notte dei tempi” e forse si possono far risalire ai Greci; del resto sono ben diffuse in tutte le principali località di antica tradizione del Mediterraneo; ognuno ha poi sviluppato e modificato il metodo in funzione degli scafi più adatti ad affrontare il mare ed i “mestieri” del luogo specifico. Da sempre il maestro d’ascia si preoccupa di avere disponibile il miglior legname per la realizzazione delle sue barche: fusi dritti per la chiglia, stortami per l’ossatura rigorosamente in quercia o olmo, mentre per fasciare lo scafo preferisce del buon pino marittimo (in particolare la “pigna” locale); né troppo giovane né troppo vecchio, perché nel primo caso risulta troppo umido e nel secondo non è in grado di assorbire gli  urti. Anticamente gli stessi maestri d’ascia si recavano nei boschi per scegliere gli alberi più adatti alle loro esigenze ed il taglio doveva essere eseguito d’inverno e rigorasamente con luna calante; oggi tutto questo non è possibile e gran parte del legno in commercio è esotico. La stagionatura del legname è comunque ancora essenziale per la sua qualità e, a Sorrento, le grotte scavate nel tufo e ben arieggiate risultano ideali per questo processo naturale, garantendo una temperatura costante e quindi un lento essiccamento, nonché la necessaria graduale riduzione d’umidità e, naturalmente, l’assestamento delle dimensioni del legname lavorato in tavole di spessori diversi.

All’interno del cantiere per la costruzione di un gozzo vengono posti in opera innanzitutto la ruota di prua, il dritto di poppa e la chiglia, spina dorsale di tutta la struttura ed “anima” dell’imbarcazione (cui è sempre dovuto un atto di devozione religiosa e che qui viene testimoniata dal crocifisso posto sull’estremità dell’asta di prua).

Partendo dall’ordinata maestra, con opportune sagome vengono ricavate dalle grezze tavole le diverse ordinate composte da madieri e staminali, così da sfruttare al meglio le venature del legno. La tracciatura di queste sagome in compensato ancora oggi viene effettuata con il così detto “garbo” e con altre specifiche sagome e tavole graduate, che consentono al maestro d’ascia di tenere conto di quanto l’ordinata deve ridursi in larghezza, altezza e forma (più o meno svasata), a mano a mano che dal centro si procede verso prua o verso poppa. Per fare quest’operazione vengono utilizzati: una “tavoletta” che, con opportune tacche di riferimento, comanda le altezze, uno “scanigliato”, che definisce la forma del fondo, ed uno “staminale campione” che – unitamente alla “colomma” – serve a modellare le murate. Le varie “tacche” o segnature che devono combinare tra loro sono ricavate in funzione del numero di ordinate necessarie ed in modo tale da delineare una curva adatta alla penetrazione dello scafo in acqua; fin dall’antichità questo si ottiene col metodo della “mezzaluna”, dove il raggio del cerchio è pari alla riduzione dimensionale che si vuole ottenere, come si può vedere dal disegno riportato.

Caratteristica evidente negli scafi filanti di questi gozzi appare – a prua e a poppa – la chiusura nella parte alta del fasciame fatta con una tavoletta trasversale denominata “frisa”, che consente di allargare maggiormente la parte alta delle fiancate.

Sembra incredibile vedere questi maestri d’ascia impostare ancora oggi un gozzo con queste metodologie pratiche piuttosto che con il piano di costruzione ed una sala tracciato; ma qui, prima di imparare a scrivere e disegnare, già si sapeva costruire una barca. Nessun gozzo è mai uguale a un altro, poiché veniva personalizzato a seconda delle esigenze o particolari richieste; vi erano anche i “gozzi con la vanga che perde”, che venivano costruiti a chiglia dritta ma asimmetrici per consentire la voga con numero di rematori dispari, in modo da compensare le differenti forze propulsive di bordo. Il progetto riportato è un pezzo raro del tipico gozzo sorrentino “a manaide”, di 27 palmi di lunghezza, parte del patrimonio generazionale del maestro d’ascia Antonio Cafiero, detto “O Rosso”, che ha il suo cantiere a Marina di Meta, in una grotta dove lavora con il figlio Michele. La propulsione principale su queste barche era data dai remi, normalmente da 4 a 6, e quando il vento era favorevole veniva impiegata una vela a tarchia con l’albero molto appruato, che poteva con facilità essere tolto per consentire le operazioni di pesca. Più recentemente si è passati all’impiego della vela aurica sospesa ad un terzo della lunghezza dell’antenna, con il lato inferiore libero, e poi alla vela latina, per un miglior impiego diportistico. L’utilizzo di quest’ultima ha portato ad un allargamento nelle forme dello scafo e al posizionamento più centrale dell’albero. Purtroppo ormai quest’arte va sempre più scomparendo, per la difficoltà di reperire il legno adatto e, soprattutto, perché il “mestiere” richiede dedizione e sacrificio e per i giovani è sempre più difficile approdarvi; in ogni caso il fascino del gozzo non è tramontato, in quanto si è provveduto a copiarne la carena per realizzare scafi in vetroresina, mantenendo le finiture in legno ed adattandolo al motore con delle opportune modifiche della prua e della poppa.

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