GREENPEACE
Presentato questa mattina un dossier da Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne Greenpeace Italia, Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente e Michele Candotti, direttore generale Wwf Italia, per svelare le “menzogne dei fautori dell’atomo”
LIVORNO. Il nucleare non serve all’Italia. Questo il
titolo del dossier presentato questa mattina da Giuseppe Onufrio, direttore
delle campagne Greenpeace Italia, Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale
Legambiente e Michele Candotti, direttore generale Wwf Italia, per svelare le
“menzogne dei fautori dell’atomo”.
Si citano infatti nel dossier tutti gli slogan che vengono riproposti nella
campagna mediatica a favore del nucleare, approfondendoli poi uno ad uno per
dimostrarne l’assoluta infondatezza. Tra gli slogan più utilizzati il fatto che:
è l’unica risposta concreta per fermare i cambiamenti climatici, è economico,
permette di ridurre la bolletta italiana e la dipendenza dall’estero, è sicuro.
Tutte «bugie, conti fasulli, favole» scrivono le associazioni ambientaliste «che
servono a costruire una risposta emotiva da parte dell’opinione pubblica e un
dibattito ideologico sui tabù e i divieti. Nella realtà si sta solo facendo il
gioco di quei gruppi di interesse che si stanno candidando a gestire una
montagna miliardaria di investimenti pubblici». Per le tre associazioni
ambientaliste la soluzione per fermare la febbre del pianeta e ridurre la
bolletta energetica italiana è molto più semplice dell’opzione nuclearista
rilanciata dal ministro Claudio Scajola: è fondata sul risparmio,
sull’efficienza energetica e sullo sviluppo delle fonti rinnovabili.
Semplicemente perché è la via più immediata, più economica e sostenibile.
Sui costi, si sottolinea che gran parte del costo dell’elettricità da nucleare è
legato agli investimenti per la progettazione e realizzazione delle centrali,
che è almeno doppio di quanto ufficialmente dichiarato, e richiede tempi di
ritorno di circa 20 anni. A cui vanno aggiunti i costi di smaltimento delle
scorie e di smantellamento degli impianti. «Dove il Kwh nucleare costa
apparentemente poco è perché lo Stato si fa carico dei costi per lo smaltimento
definitivo delle scorie e per lo smantellamento delle centrali. E sono proprio
queste spese ad aver scoraggiato gli investimenti privati negli ultimi decenni»
si legge nel dossier.
Tant’è che tutti gli scenari - persino quello dell’Agenzia internazionale per
l’energia atomica - prevedono nei prossimi anni una riduzione del peso
dell’atomo nella produzione elettrica mondiale. Secondo le stime dell’Aiea si
passerebbe dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030, nonostante la ripresa dei
programmi nucleari in alcuni paesi. In Italia, per il ritorno al nucleare
occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, con un immenso esborso di
risorse pubbliche. Per le 10 centrali, ipotizzate come necessarie per abbassare
i costi della bolletta energetica, servirebbero tra i 30 e i 50 miliardi di euro
di investimenti (con il forte rischio di sottrarre risorse allo sviluppo delle
rinnovabili e dell’efficienza energetica), cui aggiungere le risorse per gli
impianti di produzione del combustibile e il deposito per lo smaltimento delle
scorie. Le centrali, nella migliore delle ipotesi, entrerebbero in funzione dopo
il 2020, e gli investimenti rientrerebbero solo dopo 15 o 20 anni.
Sulla sicurezza degli impianti ancora oggi, a oltre 22 anni dall’incidente di
Chernobyl, non esistono garanzie per l’eliminazione del rischio di incidente
nucleare e la conseguente contaminazione radioattiva. E quanto alla possibilità
di rimettere la speranza di sicurezza nella quarta generazione, si deve
aspettare almeno il 2030 per vedere (forse) in attività la prima centrale.
Rimangono poi tutti i problemi legati alla contaminazione “ordinaria”, derivante
dal rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento
delle centrali, a cui sono esposti i lavoratori e la popolazione che vive nei
pressi. C’è poi il problema non risolto delle scorie: le 250mila tonnellate di
rifiuti altamente radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di
essere conferite in siti di smaltimento definitivi. Cosa che vale anche per il
nostro Paese che conta secondo l’inventario curato da Apat circa 25mila m3 di
rifiuti radioattivi, 250 tonnellate di combustibile irraggiato, a cui vanno
sommati i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e
industria e i circa 8090mila m3 di rifiuti che deriverebbero dallo
smantellamento delle centrali e degli impianti del ciclo del combustibile, fermi
dopo il referendum del 1987.
Infine la favola che il nucleare sia la risposta ai cambiamenti climatici, viene
contraddetta dagli stessi tempi di realizzazione. «Se si avesse come obiettivo
il raddoppio delle centrali nucleari esistenti entro il 2030, rimpiazzando anche
quelle che andranno a fine vita nei prossimi 20 anni- si legge nel dossier-
l’effetto sulle emissioni globali sarebbe di una riduzione solo del 5%» E
occorrerebbe aprire una nuova centrale nucleare ogni 2 settimane da qui al 2030,
oltre a spendere un cifra tra 1000 e 2000 miliardi di euro, aumentando di molto
i rischi legati a incidenti, alla proliferazione nucleare, e ingigantendo la
questione delle scorie.
«Inoltre la produzione nucleare è solo apparentemente esente da emissioni di
Co2, dal momento che gli impianti nucleari per motivi di sicurezza richiedono
enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, materiali che per la
loro produzione richiedono carbone e petrolio». Ma anche le altre fasi della
filiera nucleare, dall’estrazione del minerale d’uranio, alla produzione delle
barre di combustibile, fino al loro stoccaggio e riprocessamento sono talmente
rilevanti che «complessivamente le emissioni indirette della produzione di un
kWh da energia nucleare è stato calcolato essere comparabile con quella del kWh
prodotto in una centrale a gas».
In Italia - si legge nel dossier - scegliere l’opzione nucleare significherebbe
mettere una pietra tombale su qualsiasi prospettiva di riduzione delle emissioni
di Co2 Se la priorità fosse realizzare centrali nucleari, poiché gli
investimenti sono economicamente alternativi, dovremmo dire addio agli obiettivi
comunitari e vincolanti del 30% di riduzione delle emissioni di CO2, del 20% di
produzione energetica da rinnovabili e del 20% di miglioramento dell’efficienza
energetica al 2020. Uno scenario che consente di sviluppare imprese innovative,
realizzare migliaia di nuovi posti di lavoro nella ricerca e sviluppo, avere
città più moderne e pulite, a portata di mano anche nel nostro Paese nonostante
il suo grave ritardo rispetto agli obblighi di Kyoto. Le associazioni hanno dato
quindi l’appuntamento il 7 giugno a Milano per la manifestazione In marcia per
il clima «per promuovere il cambiamento e l’innovazione nelle scelte energetiche
e infrastrutturali».
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