IL LAUTELLO

 

Abbiamo già avuto diverse occasioni di citare l’opera di P.A. Hennique, capitano di fregata della Marina francese, il quale descrisse con amorevole cura le imbarcazioni da lui viste in navigazione nel Mediterraneo, particolarmente nelle acque di Tunisia. Oltre alle descrizioni, il capitano ci lasciò anche i suoi schizzi, riprodotti nel suo libretto “Caboteurs et Pecheurs de la cote tunisie” edito a Parigi nel 1888, ristampato nel 1989 ed oggi di nuovo introvabile.

Torniamo adesso a citare quest’operetta per noi preziosa, perché essa è praticamente l’unica fonte che testimonia della passata esistenza di una barca che – a quanto pare – era tipica della Sicilia, il lautello.

Di questa barca i più celebrati autori di antichità nautiche, che sono poi le fonti dalle quali noi oggi possiamo trarre le nostre informazioni più generali intorno alle barche tipiche mediterranee, tacciono del tutto. Il dizionario di Marina dell’Accademia d’Italia riferisce solo la denominazione dialettale di questa barca, tratta da un lessicografo siciliano (lauteddu) riportandone la definizione, non proprio illuminante. E questa è l’unica traccia rimasta, a quanto ne sappiamo.

In assenza degli schizzi di Hennique uno sarebbe portato a supporre, basandosi sul nome “lautello”, che questa barca fosse imparentata col leudo, del quale sono note le denominazioni leuto, lauto, laut, lut, etc. Un piccolo leudo, insomma. Invece le caratteristiche dello scafo contrastano radicalmente con quelle del leudo, tanto da escludere ogni affinità delle denominazioni, si può supporre che nelle acque siciliane la denominazione leuto o lauto valesse in un certo periodo nel senso generico di piccola imbarcazione, come noi diciamo barca (anche questa non era in origine una denominazione generica, ma si riferiva ad un tipo ben determinato). Forse poi un battello locale, persa la sua denominazione specifica, assunse quella di lautello=barchetta. Ma questa è solo un’ipotesi, che esponiamo per quel che può valere, per spiegare la contraddizione.

Che il lautello fosse un’imbarcazione molto antica lo dice al nostro occhio la forma arcaica dell’ornamento del dritto di prora (in termine tecnico, pernaccia), che richiamava vagamente ornamenti analoghi di altre imbarcazioni mediterranee, senza che sia possibile immaginare tra di esse legami di sorta. Anche la strana sovrastruttura di poppa ci rende perplessi. Dobbiamo partire dal principio che nulla, in queste imbarcazioni da lavoro, fosse lì per capriccio; pure, la lunga e fragile “coda” sembra aggiunta ad uno scafo altrimenti massiccio, anziché farne parte organica. Vedremo in seguito che un uso pratico quella “coda” lo aveva, come attesta Hennique; ma lo stesso risultato (la discesa e la salita dei marinai nelle barchette di servizio) poteva esser raggiunto, ci sembra, con mezzi più semplici.

Per quanto riguarda le forme della carena, dobbiamo richiamare quanto già detto sulle fonti che abbiamo a disposizione su questa barca tradizionale; esse purtroppo sono limitate agli appunti ed agli schizzi di Hennique. Le linee d’acqua e le sezioni che abbiamo tracciato – a beneficio dei modellisti – sono ispirate necessariamente a scafi simili, e perciò ipotetiche.

Se passiamo in rassegna le caratteristiche dell’attrezzatura, notiamo in primo luogo l’alberetto latino di mezzana, piantato sulla sovrastruttura di poppa già citata; come su altre barche aventi un simile alberetto a poppa, esso poteva facilmente essere abbattuto, all’occorrenza, e stivato in posizione meno esposta. Anche il lungo bompresso era retrattile. L’attrezzatura dei fiocchi era piuttosto “moderna” in quanto le draglie facevano mura sui “cavalieri”, grossi anelli di ferro ricoperti di cuoio, che potevano scorrere sul bompresso.

Facendo forza sugli alafuori ed aladentro era possibile regolare con finezza l’assetto velico dell’imbarcazione alle varie andature.

Quanto all’albero maestro, anch’esso con vela latina, l’attrezzatura è relativamente “ricca” il che sorprende in un’imbarcazione di dimensioni modeste (circa 15 metri al galleggiamento, nell’esemplare ritratto da Hennique). La vela ha i terzaroli, ma inoltre la barca ha una seconda antenna, munita di una sua drizza indipendente, formata da un paranco con grossi bozzelli. In caso di necessità, insomma, bastava calare un’antenna ed issare immediatamente l’altra con la vela già inferita. L’antenna che Hennique rappresenta in posizione di riposo, sul capo di banda, è più lunga di quella issata a riva, e dunque dobbiamo pensare che essa fosse usata con venti deboli ed una vela leggera.

Questa maniera di ridurre o aumentare la superficie velica e la resistenza della velatura alla forza del vento era tipica delle navi e barche a vela latina dei tempi più remoti. Testimonianze di questo si possono trovare nei documenti fin dal 1400.

Infine, in testa d’albero troviamo stroppato un bozzello, che crediamo servisse di rinvio per la drizza di una piccola vela quadra, issata “volante” vale a dire, tenuta solo dalla drizza stessa e dalle due scotte.

Osserviamo, sempre a proposito della vela latina di maestra, che la sua antenna è tenuta entro sartie, e la drizza (o meglio, le drizze) sono a proravia dell’albero. Questo ci dice che siamo in presenza di una vela latina “moderna”, il cui passaggio sottovento, durante la virata, avveniva a poppavia dell’albero.

Tutto sommato, a stare agli schizzi del capitano Hennique, questa barca era molto bene attrezzata; ci pare anche che l’impiego di bozzelli per i numerosi paranchi, fosse superiore ad analoghe barche da lavoro del tempo, ed i bozzelli costavano soldi, anzi “tarì” trattandosi di barche siciliane. Che l’impiego dei lautelli fosse particolarmente remunerativo non risulta. Ma quale era questo impiego?

Hennique vide i lautelli siciliani impegnati nella pesca delle spugne sotto la costa orientale della Tunisia. Il battello-madre portava con sé un certo numero di “barchette” (da otto a dodici) che erano sovrapponibili come i “dories” del Great Banks, una volta che fossero rimossi i banchi. Così durante la traversata da Trapani (poniamo) alla costa tunisina, le barchette occupavano il minimo spazio sul ponte del lautello. Sul luogo della pesca, gli equipaggi delle “barchette” si servivano di una specie di barile con fondo di vetro trasparente per avvistare le spugne sul fondo, e di una grande fiocina per catturarle.

Di notte le barchette restavano ormeggiate ad un lungo tangone sporgente dalla poppa del lautello.

Per scendere sulle barchette l’equipaggio utilizzava il foro quadrato sul fondo della sovrastruttura di poppa, e possiamo supporre che lo stesso foro venisse utilizzato per caricare a bordo le spugne.

A bordo del lautello restavano durante il giorno solo in tre, il padrone della barca, un membro dell’equipaggio in turno di riposo e…… un “finanziere” tunisino. Questa è una notizia curiosa che vale la pena di riferire: il Bey di Tunisi rilasciava licenze di pesca alle spugne dietro pagamento di un’imposta (oggi la chiameremo tassa di concessione). Per rendere meno aleatorio il gettito fiscale, o forse per alleviare la disoccupazione, il Bey faceva obbligo ai pescherecci stranieri di prendere a bordo un suo suddito, che doveva controllare la qualità pescata. Il tunisino era tenuto però anche ad aiutare nei lavori di bordo, e per questo doveva essere retribuito dal padrone della barca. Fiducia per fiducia, crediamo di comprendere anche il motivo della presenza a bordo di un uomo dell’equipaggio in “turno di riposo” accanto al padrone……

Abbiamo spesso parlato della “barchetta”; di questa diamo un piano costruttivo, che è tratto dall’opera di un altro benemerito francese dell’archeologia navale, Jules Vence. Questo autore riproduce i piani delle “barquettes” provenzali, che presentano le stesse caratteristiche e proporzioni delle “barchette” siciliane descritte da Hennique. Riteniamo perciò molto probabile che si tratti proprio dello stesso tipo di piccola imbarcazione di servizio diffusa dalla Sicilia alla Provenza.

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