n. di repertorio SIAE 0001863
La Storia
Ero
ancora un ragazzo, conoscevo un vecchio saggio che mi raccontava tante storie di
avventure vissute sui mari, nell’ascoltarle la mia immaginazione mi faceva
vivere quei posti, sentire quelle emozioni, vedere quei colori, percepire quegli
odori ed alla fine di ogni storia mi ripeteva sempre, figliolo senza storia non
c’è futuro. Da allora quel vecchio saggio, i suoi racconti e la sua storia
sono rimasti nei miei pensieri fino ad oggi e fino a quando io vivrò, perché
è vero, senza storia non c’è futuro.
Era
l’anno 1969, quando, a sedici anni con lo spirito di avventura, la voglia di
conoscere, di indipendenza e di crescere senza condizionamenti della famiglia,
della vita in una città che di lì a poco sarebbe divenuta una caotica
metropoli senza storia e senza futuro, mi arruolai nella marina militare
italiana.
Nel
settembre di quell’anno, il cinque settembre, varcai la soglia delle scuole
CEMM di Taranto, a San Vito.
Io
ero piccolo piccolo, in quell’ambiente così enorme, come un pesce in un
oceano.
Grandi
camerate dove potevano alloggiare oltre trecento nuovi marinai volontari,
nominati dai militari di leva “biciclette”, un vasto piazzale in cui ci
stavano oltre duemila persone tutte allineate per gruppi di categoria. Ai
quattro angoli del piazzale erano posizionate quattro stazioni segnali, che
servivano alla scuola di telecomunicazioni per addestrare gli allievi
segnalatori. Ogni edificio del complesso ospitava officine meccaniche, officine
per siluri, laboratori per apparecchiature elettroniche, sale per
radiotelegrafia, per telescriventi, per radar, aule, mense e quant’altro era
indispensabile ad una città militare predisposta alla preparazione dei futuri
veri professionisti indispensabili per far
vivere e navigare le nostre navi.
Intanto,
dopo essere stato sottoposto a dei quiz psico attitudinali, mi vennero proposte
tre specializzazioni, meccanico motorista, radarista e semaforista (nel ramo
delle telecomunicazioni questa figura era polivalente e cioè: a bordo sarei
stato addetto alle segnalazioni luminose e a bandiere, meteorologia,
dattilografia, rilevamenti astronomici e terrestri, coadiuatore dell’ufficiale
di rotta per il carteggio nautico, mentre a terra sarei stato telescriventista
presso i telegrafi della marina militare), scelsi quest’ultima
specializzazione e tutt’oggi digito, prima sulle vecchie macchine da scrivere
ed ora sulle tastiere dei computers, per un’azienda di Roma. Sono il più
veloce in assoluto in tutta l’azienda, oltre mille battute comprese le
correzioni per un tempo di circa due minuti, tastiera cieca, questo grazie alla
marina militare italiana, sono un vero professionista in questo ramo.
Torniamo
al racconto.
Il
mio carattere ribelle non mi giovò molto, furono più i giorni che rimasi
consegnato agli arresti che quelli che trascorsi in franchigia, ma tanto le
scuole erano così grandi che trovai il modo per non annoiarmi.
Durante
il periodo di formazione professionale, oltre alle lezioni ci venivano impartite
regole militari, magari non proprio ferree come in altri corpi militari, ma le
marce erano comunque marce.
Trascorsi
i dodici mesi di corso, giunse poi il momento che ad ognuno di noi, che era
riuscito a stringere i denti fino all’ultimo, gli venne assegnata la
destinazione.
La
mia prima destinazione fu il telegrafo del Comando Marina di La Maddalena, in
Sardegna. Un posto meraviglioso, in quel tempo era affascinante e selvaggia, una
cosa che la caratterizzava particolarmente e che la rendeva indipendente era,
che, alle otto della sera i traghetti che collegavano La Maddalena con la sua
sorella maggiore cessavano il servizio, e perciò, anche se l’isola non era
deserta, era comunque distaccata dal resto del mondo.
Il
vento era il padrone in assoluto ed il mare suo socio.
Dopo
pochi mesi fui trasferito alla stazione segnali di Sant’Elia, a Cagliari.
Arrivai a destinazione il trentuno dicembre del 1970, allo scadere della
mezzanotte, di fronte a due portoni, uno del faro e uno della stazione segnali,
sopra ad un promontorio e un vento furioso che trasportando con se le particelle
di acqua di mare mi sferzava il viso e mi faceva un male boia, indeciso a quale,
dei due, avrei dovuto suonare il campanello per farmi aprire; fra me pensai,
cercavo l’avventura e questo era solo l’inizio ed era anche un bell’inizio
d’anno, alla fine qualcuno dalla stazione segnali mi aprì e mi accolse
frettolosamente accompagnandomi, infreddolito lui e morto di freddo io,
nell’alloggio del personale di servizio presso quella postazione di
avvistamento della marina militare italiana.
La
mia mansione era quella di segnalatore e avvistatore di unità militari e
mercantili che si dirigevano verso il porto di Cagliari e nel contempo redigevo
anche gli avvisi di burrasca in base alle condizioni climatiche che inviavo al
telegrafo e alla capitaneria di porto.
Durante
quella mia permanenza presso la stazione segnali partecipai, nella vicina
stazione radio, ad un esercitazione del battaglione San Marco, in
quell’occasione, io piccolo piccolo, ancora diciassettenne, da solo catturai
dodici enormi incursori.
Al
termine di quell’operazione, il comando marina di Cagliari, informato
dell’atto di coraggio da me dimostrato nell’esercitazione, la mattina
successiva inviò a prelevarmi un tenente di vascello, che, al momento di
lasciare la stazione radio mi concesse il suo posto sulla jeep e mi fece rendere
gli onori dal picchetto armato e mi condusse presso l’aeroporto di Elmas per
impiegarmi in un'altra esercitazione, questa volta con i velivoli
antisommergibili Grumman SH2F.
In
quel caso il mio compito era quello di trasmettere e ricevere i messaggi cifrati
e non cifrati tramite telescrivente e recapitarli alla squadra antisom e
viceversa al comando marina di Cagliari.
Dopo
tutte queste vicissitudini, oltre agli arresti che non mancavano mai, dato che
io neanche cambiavo, venni trasferito presso il telegrafo della marina, da dove
spesso venivo spedito, dato che ormai era divenuta una consuetudine,
all’aeroporto di Elmas sempre di spalla agli antisom.
Trascorsi
nove mesi, e ancora la benedetta licenza tardava ad arrivare, detti in
escandescenza, alchè il mio comandante, compreso che pretendere ancora da me
non sarebbe servito, mi concesse la tanto sospirata vacanza.
Erano
passati alcuni giorni dal mio ritorno in sede operativa, mi trovavo di servizio
al telegrafo, quando mi capitò fra le mani un messaggio proveniente dal
Maripers Roma, su cui c’era il mio trasferimento sull’incrociatore Andrea
Doria, era la nave ammiraglia della prima divisione navale con base alla Spezia.
Entusiasta a quella notizia festeggiai insieme ai miei compagni recandomi in
franchigia a far baldoria.
Era
sul finire di agosto del 1971 che arrivai alla Spezia di pomeriggio, la nave non
era in banchina, era alla fonda per le prove di bussola.
Al
molo mi aspettava l’equipaggio di una motobarca che presomi a bordo mi portò
sottobordo alla nave. Era infinita, maestosa, diavolo se era grande, misi piede
sul barcarizzo e salii in fretta, come arrivai sul ponte salutai la bandiera e
venni accolto con le parole: - tu sei Cristini, 245 giorni di arresti su 365?
Si, risposi. - Benvenuto.
Fui
alloggiato nel locale equipaggio E3, sotto il deposito dei missili terrier. Era
un locale piccolo ed accogliente, pulito ed ordinato, ricordo, non vorrei
sbagliare, che poteva ospitare dodici marinai, tutti del servizio di
telecomunicazioni.
Da
alcuni giorni la nave era uscita dal bacino di carenaggio, dove era entrata per
la manutenzione periodica dello scafo ed altri lavori per eventuali modifiche e
miglioramenti alle attrezzature di bordo.
In
quella circostanza, non essendo ancora sottufficiale, fui assegnato alla squadra
di lavoro per l’imbarco munizioni.
Ogni
qualvolta una nave militare entra in bacino, tutte le munizioni vengono
sbarcate.
Dalla
bettolina affiancata alla nostra murata, con la gruetta appositamente
installata, prelevavamo i cosiddetti cofani contenenti ciascuno tre proiettili
dei cannoni antiaerei da 76/62, con i primi di questi cofani formavamo un
tracciato, un percorso, dalla gruetta al portellone dell’ascensore collegato
con il deposito santabarbara, su cui poi facevamo scivolare il resto dei cofani,
appunto, fino all’ascensore.
Certo
il lavoro non era molto pesante, ma neanche leggero.
Il
giorno dopo, finito di imbarcare le munizioni, iniziammo ad uscire in mare per
le prove di macchina, di solito dirigevamo per le acque antistanti Livorno e poi
il pomeriggio ritornavamo alla fonda alla Spezia.
Mentre
si era alla fonda tutto il personale di bordo faceva servizio di navigazione,
cioè copriva una turnazione di tre turni di quattro ore per turno, il mio
servizio lo svolgevo in plancia comando, e stazione segnali, consisteva nel
rilevamento ogni ora dei punti a terra per stabilire eventuali spostamenti della
nave dal punto di fonda; scambio di segnalazioni luminose con altre navi della
flotta ormeggiate in banchina; trascrizione dei messaggi pervenuti dalla sala
radio, con la macchina da scrivere e inoltro di questi al Comandante e ad alle
segreterie di bordo.
A
bordo si stava bene, un ambiente familiare, dove mi rendevo conto di come tutti
erano utili a tutti e tutti erano indispensabili. Gran bell’equipaggio e gran
bella nave.
I
giorni passavano veloci e pieni di novità di cui ne facevo tesoro.
E
venne il 19 novembre, erano trascorsi appena due mesi dal giorno in cui, avevo
messo piede per la prima volta sulla coperta della nave, ci trovavamo alla fonda
nella rada della Spezia, dopo essere rientrati dalla solita uscita in mare di
routine. Da un paio di giorni persisteva una perturbazione meteorologica di
notevole entità e perciò la burrasca stava aumentando di intensità. Le
caldaie erano in pressione pronte ad ogni eventuale manovra, quando intorno alle
ore 22 un messaggio proveniente dal Comando in Capo della Marina Militare di
Roma portava l’ordine immediato di prendere il mare alla ricerca di un
hercules con a bordo 54 paracadutisti precipitato nelle acque antistanti
l’isola Meloria.
Dopo
cinque notti e quattro giorni di ricerca con mare forza 9, dopo aver rilevato il
relitto dell’aereo, purtroppo senza nessun superstite, rientrammo in porto con
gravi danni riportati dalla violenza del mare e per tale motivo dovemmo
risbarcare tutte le munizioni e rientrare in bacino per i lavori di riparazione,
quello fu il mio primo incontro con il mare nella sua espressione più dura.
La
storia ha sempre un futuro.
Pietro
Cristini